NoviGL-39 - ilCATECUMENO.it

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39. Noi possediamo un impulso a compiere il Male nonostante si sappia che è tale e che si sappia anche che cosa è il Bene. Gesù - vissuto come uomo - nel giudicare tiene però conto della debolezza della natura umana dovuta alle conseguenze del Peccato originale.
San Paolo - Apostolo delle Genti, cioè dei Gentili, i Pagani - non era al di sopra degli stimoli carnali, fatto questo che gli fece meglio comprendere i 'Gentili' che carnalmente erano dei 'bruti'.
Egli aveva in effetti scritto nella sua 'Lettera ai Romani':1

«...14Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. 15Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. 16Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; 17quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c'è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, 23ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. 24Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? 25Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato...».
Spiegato in parole povere significa che, pur vedendo e sapendo ciò che è Bene, noi - a causa della nostra costituzione di 'peccato' dovuta alle conseguenze del Peccato originale - ci sentiamo in qualche modo trascinati a preferire il Male. Quindi la nostra è una battaglia continua fra lo stimolo (buono) a fare il Bene inciso da Dio nella nostra anima e l'impulso (cattivo) a propendere verso il Male derivante dalla corruzione della nostra anima indotta da Satana.
A questo riguardo lo Spirito Santo aveva una volta spiegato alla nostra mistica (sottolineature e grassetti sono miei):2
Dice il Dolce Ospite:
«Dal v. 14 al v. 25, è lezione che andrebbe sempre ripetuta dai maestri di spirito a loro stessi; alle anime farisaiche che vedono il bruscolo nell’occhio dei fratelli e lo censurano aspramente, mentre non vedono la trave dell’anticarità che è nel loro e che schiaccia il loro spirito sotto il peso dell’egoismo e della superbia3; e andrebbe ripetuta alle povere anime ‑ oh! meno colpevoli di quelle farisaiche, anche se sono colpevoli e se ne dolgono perché riconoscono di esserlo, e umiltà e pentimento sono già assoluzione - e alle povere anime che hanno peccato a piangono temendo il Signore, Giudice della loro debolezza.
Perché questi 12 versetti sono regola nel giudicare gli uomini e misura nel giudicare ciò che sarà il giudizio di Dio verso i peccatori pentiti.
Chi li ha scritti è Paolo, fariseo, figlio di farisei, discepolo di Gamaliele, di quel Gamaliele che era una biblioteca vivente di tutta la dottrina di Israele. Paolo, prima feroce persecutore di quelli che credeva anatema, poi vaso di elezione e di giustizia, apostolo perfetto, eroico nell’evangelizzare e nel reprimere l’antico suo io, degno di salire con la parte eletta della sua anima al terzo cielo e udirvi le misteriose parole divine.
Un uomo, dunque, che per l’intransigenza della sua prima epoca di vita e per l’eroicità della sua seconda epoca di vita, potrebbe pensarsi essere stato sempre al di sopra degli stimoli carnali.
Se lo fosse stato, però, non avrebbe potuto essere “l’Apostolo dei Gentili, di quelli cioè che la licenza consentita dal paganesimo faceva, salvo poche eccezioni di spiriti naturalmente virtuosi, più bruti che creature dotate di ragione e coscienza.
Solo Gesù, Uomo-Dio, poté comprendere i peccatori pur non avendo peccato.
Per ogni altro maestro è un doloroso bene l’avere, nel poco o nel tanto, ceduto al demonio, al mondo, alla carne, perché nella conoscenza della forza delle tentazioni e della debolezza propria, acquista la sapienza per essere maestro e medico ai discepoli e ai fratelli peccatori.
Voglio che osserviate la regola del Maestro divino nello scegliersi il collegio apostolico e i 72.
Nel primo, solo Giovanni era vergine. Nei secondi, meno pochi, quasi ancora fanciulli quando divennero discepoli, non uno che non avesse morso all’appetitoso frutto, via ad ogni altro cedimento alla colpa.
Erano uomini. Nulla più che uomini. Figli di Adamo. E il fomite si agitava come serpe nei loro corpi.
Il ramo della concupiscenza carnale era vivo anche nei più giusti fra loro, ossia in quelli che avevano domato già la concupiscenza dell’oro e la superbia della vita.
Ma nessuno era senza imperfezioni. Neppure lo stesso Giovanni, il serafino dei discepoli del Maestro. Facile all’ira, come il fratello, meritò il nome di “figlio del tuono” (Mc 3,17) da Colui che lo amava.
L’apostolo della Carità, perfetto nell’amore al Maestro, divenne apostolo della carità contemplando la mansuetudine, la carità, la misericordia del Martire divino dall’alba al tramonto del venerdì pasquale, e depose per sempre l’abito dell’ira davanti alla nudità Ss. del Re dei re che si spogliò finanche della sua immortalità divina per conoscere la morte e salvare l’uomo.
Gesù Dio, scorrendo la Terra ‑ lo poteva fare se lo avesse voluto fare ‑ avrebbe potuto trovare, negli abitanti dei 3 continenti di allora, 12 e 72 giusti più giusti dei 12 e 72 che scelse in Israele.
Perché Dio Creatore ha messo (e mette) nell’anima di ogni uomo un dono eccelso, che sviluppa nei migliori santità di vita quale che sia la loro conoscenza della Divinità: la legge naturale.
E chi la osserva e la riconosce come veniente dall’Ente supremo, da Dio, o dalla deità massima della propria religione, può, senza errare, dirsi che è spirito naturalmente unito al Dio vero Uno e Trino.
Il Re universale poteva dunque col suo volere chiamare a Sé dai 3 continenti 12 e 72, così come per voce d’astri aveva chiamato alla sua cuna i 3 Savi, ed avere così un Collegio di giusti al suo servizio.
Non lo fece. Prese degli uomini molto umani. Materia grezza, informe, con molte parti impure. La formò.
Soffrì nel farlo per le defezioni e i tradimenti di parti di essa. Ma alla sua Ascensione lasciò una Chiesa docente capace di continuarlo nella redenzione del mondo.
Capace per la dottrina e l’esempio avuti dal Verbo; capace per l’aiuto dello Spirito Santo, ricevuto da Gesù risorto una prima volta nel Cenacolo, e una seconda volta, nello stesso Cenacolo, 10 giorni dopo l’Ascensione, come da promessa divina, e per diretta azione dello Spirito Santo, onde i 12 fossero ripieni dello Spirito Paraclito e lo potessero trasmettere ai loro coadiutori nel ministero sacerdotale; e capace infine perché, istruita nei diversi membri di Essa dalla conoscenza propria delle loro debolezze, delle loro lotte di uomini per formarsi nella giustizia, delle loro ricadute, non fosse incapace di essere maestra, ma sapesse capire, compatire, sorreggere, guidare coloro che venivano al cristianesimo deboli tutti perché uomini, debolissimi nello spirito perché pagani, essendo il paganesimo dottrina di materialità e di piacere sfrenato.


1  Rm 7, 14-25
2 M.V.: 'Lezioni sull'Epistola di Paolo ai Romani' - 20.5.1948 - Lezione 22a   - C.E.V.
3  Mt 7,1-5

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