NoviGL-31 - ilCATECUMENO.it

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31. Rielaboriamo alcuni concetti che sono alla base del Giudizio particolare.
Riassumendo, Dio giudica secondo verità i buoni, i tiepidi e i cattivi. E giudica senza alcun riguardo alle apparenze e allo stato sociale delle persone e nemmeno - scrutando Egli i cuori - si lascia ingannare dalle ipocrisie degli uomini.
I suoi criteri di giudizio, inoltre, non cambiano con il tempo, perché la Legge divina - proprio in quanto divina - è una Verità che ha valore assoluto ed è quindi immutabile anche se in particolari momenti della storia umana dovessero cambiare in peggio abitudini sociali e ‘valori’.
Il 'relativismo morale' - che oggi tanto si vorrebbe mettere in auge da parte di taluni ecclesiastici, anche di alto grado gerarchico, sostenendo che i valori morali e le leggi di del Vangelo debbano essere reinterpretate alla luce della evoluzione della 'società' nel tempo - non ha quindi alcuna plausibilità, almeno dal punto di vista cristiano.
Quanto poi al 'giudizio' che ci è tanto caro esercitare nei confronti del prossimo, questo è sostanzialmente una mancanza di misericordia: se non si vuole essere a propria volta giudicati da Dio con analoga mancanza di misericordia è dunque bene non giudicare gli altri.
Inoltre saranno giudicati da Dio ancor più severamente coloro che nella società civile hanno la responsabilità ed il compito 'ufficiale' di giudicare oppure coloro che si arrogano il diritto di farlo.
La Legge è uguale per tutti, si dice e si scrive persino nelle aule dei Tribumali, ma sappiamo che non è vero e che per molti è meno 'uguale' che per altri. Grande è allora la responsabilità dei Giudici i quali, in terra, dovrebbero avere il delicatissimo compito di surrogare – ma con vera giustizia - la Giustizia divina.
Non bisogna inoltre giudicare il prossimo perché bisogna sapere essere 'piccoli', cioè umili, perché è nell'umiltà che sta l'Amore e quindi la Sapienza.
Peraltro chi sa amare 'disarma' Dio che, a quel punto, è disposto a perdonare anche le sue colpe: Dio non solo ricompenserà l'uomo che dimostra di amarlo fattivamente attraverso le proprie opere, che sarebbero comunque imperfette, ma - tenendo conto del suo amore che è più grande della umana capacità di fare il bene - Dio, più che della capacità dell'uomo, terrà conto del suo desiderio attivo di farlo.
Ciò, appunto, perché Dio - come detto in precedenza - nel Suo Giudicare non si lascia ingannare dalle apparenze e, anche dopo una paziente attesa per dare tempo all’uomo di pentirsi, sa farlo con perfezione.
Lo Spirito Santo ci dice che non dobbiamo giudicare anche perché l'uomo è imperfetto: l'uomo infatti - pur conoscendosi - non sa giudicare se stesso perché si giudica sempre migliore di quanto egli non sia, per cui ben difficilmente saprebbe giudicare gli altri che non conosce, basandosi per di più sulle apparenze se non sui propri pregiudizi.
Il nostro giudizio non solo quasi mai è perfetto ma, praticamente, non è mai caritatevole. Esso si traduce quindi in una mancanza d'amore, e dove manca l'Amore non c'è Dio e - nello spazio lasciato libero - subentra l'Altro.
Se Dio è libero di giudicare noi dobbiamo dunque rinunciarvi, respingendo persino la tentazione mentale, lasciando ogni giudizio a Dio.
Gesù - pur essendo Uomo-Dio - era umile e nel suo 'Discorso della Montagna' aveva elogiato i 'mansueti'.
Chi infatti non giudica è sostanzialmente un umile, e quindi 'ama' perché – come già sopra detto - dove c'è umiltà c'è amore.
Chi, seguendo l’impulso del proprio ‘io’ animale, vorrebbe giudicare ma rinuncia a farlo per non contravvenire all'amore, ha maggior merito perché compie un atto di violenza nei confronti del proprio 'io' che invece vorrebbe soddisfare la propria 'passione', conseguenza del Peccato originale.
Pertanto l’uomo umile che ama in maniera 'naturale' è un 'mansueto', ed in quanto tale è un prediletto di Dio.
Chi per propria natura non sarebbe un mansueto, ma fa invece violenza a se stesso, è un 'forte', ed è con la violenza al proprio ‘io’ - come ci ha insegnato Gesù - che si conquista il Regno dei Cieli.
Questa 'autoviolenza' è infatti un atto di amore perché - esercitata contro le proprie pulsioni più profonde - si traduce in una sorta di autoflagellazione: in sostanza in un piccolo 'martirio'.

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