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9. IL SESTO DISCORSO DELLA MONTAGNA: LA SCELTA TRA BENE E MALE, L’ADULTERIO, IL DIVORZIO. L’ARRIVO IMPORTUNO DI MARIA DI MAGDALA. (02 di 2)

9.1 Il Male. Lo Spirito Santo: «Tutto questo millenario dolore viene da un disordine creato da un ribelle in Cielo e da un’acquiescenza al disordine proposto da esso, ormai maledetto serpente, nell’Eden, ai due primi abitatori della Terra».

Avevamo concluso la precedente ‘riflessione’ osservando che Il tema del Bene e del Male rappresenta l’aspetto centrale del sesto discorso, ed avrebbe quindi meritato da parte nostra alcune ulteriori considerazioni che avremmo tuttavia fatto in una successiva trattazione: questa, per non appesantire la precedente che quanto a lunghezza era già stata abbastanza impegnativa.
Se tutto – nella vita dell’Umanità in terra, ma anche nell’Aldilà - si basa sul Bene e sul Male ci si potrebbe chiedere – sapendo che il Bene viene da Dio - come sia invece sorto il Male e soprattutto interrogarci sul perché Dio non lo ‘distrugga’.
Dio non ha creato il Male. La Genesi - nel descrivere i sei giorni della Creazione - dice alla fine di ogni ‘giorno’ che tutte le cose create da Dio erano buone. Tutte.1
A questo punto la risposta alla nostra domanda ce la dà Azaria, Angelo custode della mistica, che in sintesi le spiega2 che il Male nacque dal comportamento di Lucifero che ‘non santo al punto di essere tutto amore’ non volle accettare di dover adorare in un giorno futuro un Dio3 – cioè il Verbo – che si fosse incarnato in un ‘uomo’ per poi ascendere al Cielo in anima e Corpo di carne, cioè fatto di vile… ‘materia’, vale a dire un corpo che - per Lucifero che era uno ‘spirito puro’ di rango elevato - era in sostanza quello di un ‘animale’.
Lucifero, il più bello degli angeli, spirito perfetto, inferiore a Dio soltanto, aveva lasciato nascere nel suo essere luminoso un vapore di superbia che poi non aveva disperso, ma aveva lasciato ‘condensare’, covandolo.
Informato in anticipo, egli non condivise il Progetto di Dio: “Lucifero volle giudicare Iddio in un suo pensiero e lo definì errato e volle sostituirsi a Dio, credendosi più giusto di Lui.”.
Si ribellò alla Divina Volontà, venne sconfitto dall’Arcangelo San Michele e fu condannato all’Inferno.
Da allora – cominciando dai due primi uomini creati e continuando con i discendenti successivi – l’angelo decaduto, per invidia e vendetta, cerca fin dall’inizio di boicottare e anzi distruggere il Progetto divino sui ‘figli di Dio’ destinati a quel Cielo dal quale egli era stato irrimediabilmente escluso per sempre.
Non solo però l’Angelo Azaria ma anche lo Spirito Santo ebbe a fornire alla mistica, e quindi ora anche a noi, altre importanti precisazioni sull’origine del Male ribadendo l’importanza dell’Ordine e le conseguenze del Disordine.
Egli risponde quindi alla nostra domanda su come fu possibile – per via del Male provocato dalla libera volontà di Lucifero – che si creasse altro Disordine attraverso il Peccato originale.
Lo Spirito Santo ribadisce anche quel precedente insegnamento di Gesù il quale aveva spiegato che l’uomo ha la scelta fra due sentieri: da una parte quello del Bene che porta a Dio e dall’altra quello di Satana che porta al Male.
Ma ecco a voi la spiegazione integrale dello Spirito Santo (i grassetti sono miei):4
19 gennaio 1950
«La perfezione è amore. L’amore è armonia. L’armonia è ordine.
Non c’è armonia là dove viene ad essere turbato l’ordine. Non c’è amore là dove viene ad essere turbata l’armonia. Non c’è perfezione là dove viene a mancare l’amore.
Così avviene in tutte le cose e le opere. In quelle umane, e soprattutto in quelle sovrumane.
Non potrebbe aversi una musica, veramente armonica, se il musicista o i suonatori venissero a mancare all’esatta applicazione delle leggi musicali di tempo e di tono. In luogo di una musica armoniosa, di una armonia, risulterebbe un discorde rumore che porrebbe in fuga gli ascoltatori.
Non potrebbe aversi armonia morale se - fra i componenti di una famiglia, di una società, di una nazione, di un complesso di nazioni - venisse a mancare l’amore.
Il disamore, ossia il disordine nelle reciproche relazioni, porterebbe alla scissione e rovina della famiglia, alla fine di una società, alla rovina della nazione, alla guerra fra le nazioni.
Non può aversi perfezione di costumi, di leggi, di vita, se viene a mancare l’amore, ossia ancora l’armonia e l’ordine che è base di quanto è buono.
Per questo la Perfezione infinita ed eterna ‑ che è Amore, che è Ordine, che è Armonia superperfetta al punto da essere Una e Trina senza che ciò porti ad annullamento o confusione di una Persona o delle Persone, che restano ben distinte pur essendo così armonicamente fuse dall’Amore sino ad essere una perfetta Unità, e che tale perfezione ripete in diversa forma ma con uguale ordine nel Verbo fatto Carne, nel quale Divinità e Umanità si unirono senza confondersi o sopraffarsi, ognuna delle due qualità restando ciò che era, senza separazione del Figlio dal Padre, senza abusivo privilegio della Umanità del Cristo per essere Egli Dio ‑ per questo, dicevo, la Perfezione infinita ed eterna creò armonicamente tutte le cose e creature create, e tutto il Creato può dirsi una sublime armonia che dura da quando è, per quanto riguarda le sempiterne leggi che regolano il corso degli astri e pianeti, l’avvicendarsi delle stagioni, il continuo ricrearsi delle specie animali e vegetali, perché alla creatura‑uomo non venga a mancare quanto è necessario alla sua vita terrena.
Compiuta senza fatica, perché compiuta ordinatamente, la creazione sarebbe continuata senza sforzo da parte delle creature, se il disordine non fosse venuto a turbare l’armonia dei Cieli con la ribellione di Lucifero e l’armonia dell’Eden con la ribellione dell’Uomo‑Adamo.
“Eden” era chiamato il luogo dove l’Uomo era stato creato e posto perché con la compagna lo popolasse. Così come “Cielo” era chiamato il luogo dove gli angeli, spiriti puri,5 erano stati posti dopo esser stati creati da Dio, per adorarlo e servirlo nei secoli dei secoli.
Eden vuol dire “giardino”, ossia luogo di delizie.
Cielo vuol dire “Regno di Dio”, ossia luogo di santità e gaudio.
Se l’ordine non fosse mai stato volontariamente violato dalle creature che da Dio avevano ricevuto l’essere e luoghi di gaudio e delizie, l’Eden sarebbe rimasto Eden per tutti i discendenti dell’Uomo‑Adamo e l’Inferno non sarebbe stato.
Ma l’angelo per primo, conoscendo per sublime dono i misteri futuri e le future opere del Signore, misteri ed opere che Lucifero, benché sublime fra gli angeli, mai avrebbe potuto compiere, in luogo di contemplare adorando l’infinita Potenza e Carità del suo Creatore ‑ e ciò sarebbe stato “vivere nell’ordine, vivere nell’armonia dei moti intellettivi buoni” ‑ si aderse contro il suo Signore, in una folle ribellione che uccise in lui e nei suoi seguaci la carità, e quindi l’armonia e l’ordine, e creò.
Sì, esso pure creò. Ma che? Creò il disordine, il peccato, l’inferno. Ciò che poteva creare uno che si era avulso da Dio.
Il disordine nei moti ed istinti umani, che Dio aveva dato buoni, ordinati ed armonici fra loro, in ordine ed armonia al fine ultimo per cui Dio aveva creato l’uomo, venne creato da Lucifero, il ribelle, che per essere stato “splendente al mattino” della celeste creazione degli angeli, si credette “simile all’Altissimo” sopra i cui cieli tentò “innalzare il suo trono”6.
Il peccato contro l’amore, ossia la superbia della mente e del cuore per cui l’Uomo‑Adamo innocente divenne colpevole, il tremendo peccato dell’io che vuole “divenire come Dio”7 (Genesi II), è stato creato da Lucifero, che poi ad esso peccato sedusse l’Uomo per farlo simile a lui in ribellione al Signore.
L’Inferno, il luogo di eterna e inconcepibile tortura in cui precipitano quelli che ostinatamente vivono in odio al Signore ed alla sua Legge, è stato creato a causa di lui, dell’Arcangelo ribelle folgorato coi suoi seguaci dall’ira divina e vinto dagli angeli fedeli, vinto, perché ormai spogliato della potenza del suo stato di grazia, folgorato e “precipitato nel profondo dell’Abisso” (Isaia) nel quale il suo orrendo fuoco d’odio, la sua ormai orrenda luce e fiamma, così diversa dalla luce e fiamma di grazia e d’amore di cui Dio lo aveva dotato nel crearlo, accesero i fuochi eterni ed atrocissimi.
Il Cielo rimase Cielo, anche dopo la ribellione e la caduta dei ribelli. Perché nel Regno di Dio tutto è fissato da regole eterne e ‑ cacciati i superbi, i ribelli, gli autoidolatri, la cui dimora è lo stagno ardente infernale ‑ santità, gaudio, amore, armonia, ordine perfetti, continuano eterni.
Ma il disordine ormai era, e con esso il peccato, il dolore e la morte poterono insinuarsi sinuosamente fra le delizie dell’Eden, turbarne l’ordine, l’armonia, l’amore, spargervi il tossico, corrompere intelletto, volontà, sentimenti e istinti, suscitare appetiti colpevoli, distruggere innocenza e grazia, addolorare il Creatore, fare delle creature, dianzi soprannaturalmente e naturalmente felici, due infelici, condannato uno a trarre faticosamente il suo pane dalla terra ormai maledetta e producente triboli e spine, condannata l’altra a partorire con dolore, a vivere nel dolore e nella soggezione dell’uomo, condannati entrambi a conoscere il dolore del figlio ucciso dal figlio e la vergogna d’esser genitori di un fratricida, ed infine a conoscere il dolore del morire.
Tutto questo millenario dolore viene da un disordine creato da un ribelle in Cielo e da un’acquiescenza al disordine proposto da esso, ormai maledetto serpente, nell’Eden, ai due primi abitatori della Terra.
Né mai più la prima perfezione, il primo amore, la prima armonia, l’ordine primo, poterono risorgere dopo che volontariamente un angelo e due innocenti preferirono il Male al Bene supremo.
Neppure il Sacrificio di un Dio, fattosi Uomo per redimere, valse a ristabilire lo stato primevo di ordine, armonia, amore, perfezione.
La Grazia restaura, ma la ferita resta. La Grazia soccorre, ma i fomiti restano.
Mentre prima sarebbe stato dolce e senza sforzo il pervenire al Regno di Dio, ora occorre “usare violenza”8 per conseguire il Regno dei Cieli.
Violenza santa contro violenza maligna. Perché dal momento del Peccato il Bene ed il Male sono, e si combattono fuori ed entro l’uomo.
Dio chiama. Satana chiama. Dio ispira. Satana ispira. Dio offre i suoi doni. Satana i suoi.
E tra Dio e Satana sta l’uomo.
L’uomo nel quale sono due nature già in lotta fra loro. Quella carnale in cui sono i fomiti della Colpa. Quella spirituale in cui sono le voci della Grazia.
E se Dio si volge alla parte che da Lui ha somiglianza, perché è il Padre che ama la sua creatura e ad essa si vuole riunire dopo la prova terrena di essa, Satana, l’Avversario, l’Odiatore di Dio e dell’Uomo creatura di Dio, all’una e all’altra parte si volge, ed aizza la carnale mentre tenta sedurre la spirituale, per vincere e fare preda, da quel “leone ruggente che vuol divorare”, di cui parla l’apostolo Pietro9

9.2. GESÙ: «Il Battesimo annulla la macchia ma non il fomite. La Grazia infonde forza a vincere il fomite, ma non lo annulla…, esso tiene basso il vostro orgoglio. Se vi sentiste puri e perfetti, dei Luciferi diverreste, credendovi uguali a Dio..., esso rende meno gravi le vostre colpe ai suoi Occhi. Perché se non aveste in voi il fomite che agita e morde senso e ragione con l’astuzia dell’antico Serpente suo generatore, non sareste giudicati ‘con misericordia’…».

A ben leggere, ogni commento da parte nostra alla precedente spiegazione dello Spirito Santo sarebbe superfluo ma Gesù – a proposito di Bene e Male e dei fomiti lasciati dal Peccato originale che ci inducono a peccare - in un altro Dettato alla mistica spiegava ancora (i grassetti sono miei):10
Dice Gesù:
«Nell'uomo sono due ricordi antagonisti fra loro. Il ricordo dell'Infinito Bene. Il ricordo dell'ereditario veleno concupiscente.
Il primo lasciato da Dio a conforto dell'uomo decaduto dalla primitiva e perfetta Grazia e Innocenza: la verginità dello spirito, che non fu più dote che di Maria fra tutti i nati d'uomo.
Il secondo lasciato da Satana coll'insidia dell'Eden alla verginità innocente di Adamo, nel cuore di Adamo e dei suoi discendenti.
Il Battesimo annulla la macchia ma non il fomite.
La Grazia infonde forza a vincere il fomite, ma non lo annulla.
Esso resta come una spina segreta ad aizzare la cicatrice indelebile della colpa. Non la piaga: la cicatrice. Ma se non vigilate, la cicatrice aizzata e non curata con i mezzi soprannaturali ritorna piaga.
In ogni uomo sono quindi due forze opposte che combattono in lui dalla nascita alla morte e che costituiscono la sua prova, la sua vittoria o la sua sconfitta rispetto al suo destino soprannaturale.
Mi chiedi perché Dio lascia il fomite anche dopo la restituzione del dono infinito della Grazia?
Per giustizia.
Tutto in Dio è giustizia. Ogni sua operazione è giustizia e amorosa giustizia.
Non ha forse lasciato il ricordo di Lui nell'anima da Lui creata?
Quel ricordo che è misteriosa fonte di luce che guida alla Luce, sentita, sebbene in maniera diversa, da ogni spirito di vivente, come lo dimostrano la legge morale dei migliori e i bagliori più o meno vividi di luce soprannaturale delle diverse religioni rivelate, le quali, sebbene con nozioni frammentarie, già insegnano l'esistenza dell'Ente Supremo e il dovere di vivere da giusti per possederlo oltre vita.
Così ugualmente oltre questa infinita bontà lascia l'altro ricordo, rappresentato dall'aculeo del fomite.
Esso tiene basso il vostro orgoglio. Se vi sentiste puri e perfetti, dei Luciferi diverreste, credendovi uguali a Dio.
Esso tiene vigile la vostra buona volontà. Fa eroico il vostro amore a Dio. E, pietà del Padre, rende meno gravi le vostre colpe ai suoi Occhi. Perché se non aveste in voi il fomite che agita e morde senso e ragione con l'astuzia dell'antico Serpente suo generatore, non sareste giudicati "con misericordia".
Ma molto vi è perdonato perché molto in voi è suscitato non dal vostro puro volere, ma dalle imponderabili forze del fomite che non sempre riuscite a reprimere.
Ma non ti affliggere. Anche esso serve a dare corona di gloria. Perché la tentazione è tentazione, non è peccato. Perché tentazione vinta è vittoria. Perché sopportazione dell'aculeo segreto, senza consenso della volontà alle sue seduzioni, è pazienza eroica.
Ma lo Spirito Santo ti riparlerà di questo nelle epistole paoline.
Sta' in pace. E sopporta. E offri per salvare quelli che non sanno sopportare, senza cedere, gli allettamenti ereditari».
Riassumendo, e valtortianamente parlando, Dio – rispettando il nostro libero arbitrio e non conculcando la nostra volontà - non ha impedito il Peccato originale e ha permesso la nostra caduta, lasciandoci i ‘fomiti’ per farci sentire imperfetti, tener quindi basso il nostro orgoglio e cercare di impedirci in tal modo la dannazione.
Così come Dio sapeva ab-æterno che Lucifero – pur perfetto nella sua sostanza angelica – avrebbe finito per sbagliare, ma ciò non impedì a Dio di crearlo, così Dio sapeva che se l’uomo fosse rimasto indenne dalla Colpa d’origine sarebbe con il tempo diventato sempre più perfetto – cioè un superuomoma ad un certo punto di questa sua ascesa – arrivato ad essere quasi un ‘semidio’ – avrebbe finito per sentirsi Dio del tutto, e avrebbe sbagliato, come Lucifero.
Fu dunque l’amore per gli uomini, fu anche l’amore per Maria - che Egli aveva pensata spiritualmente bellissima ab æterno – ciò che lo indusse a permettere il Peccato originale, perché solo l’umiltà nata dal fango della nostra miseria di peccato ci avrebbe consentito di diventare alla fine ‘popolo di Dio’.
Mi spiego meglio.
L’uomo è una unità psico-somatica.
Noi tendiamo ad identificare l’uomo nel ‘corpo’ ma in realtà l’uomo è innanzitutto una ‘soggetto psichico’ che – provvisto di un corpo e grazie ai cinque sensi – si relaziona con il mondo esterno.
Il Peccato originale fu commesso dall’uomo in quanto soggetto psichico, cioè spirituale, e la Psiche, composta da quelli che noi chiamiamo Conscio e Inconscio, è dunque una realtà ‘spirituale’, quella che chiamiamo ‘Anima’.
Il peccato originale non fu solo un peccato ‘carnale’, come comunemente si ritiene, ma prima ancora un atto di disubbidienza. Quindi – e qui sta la ‘sostanza’ del Peccato – fu un atto di superbia e di prevaricazione nei confronti di Dio.
La Psiche-Anima, cioè il soggetto psichico, corrotta da questo ‘Peccato’ come fosse stata intaccata da un ‘virus’ spirituale, perse i doni divini soprannaturali.
Il ‘virus’ intaccò nel profondo la dimensione psicologica e spirituale dell’uomo, dando origine agli aspetti negativi della nostra attuale personalità, e colpì – a causa della profonda unità psicosomatica - anche il corpo che da quel momento divenne nei secoli gradualmente soggetto alla decadenza, alla malattia, alla morte.
Per qualche processo psico-metabolico misterioso – come se anche la Psiche umana avesse una sorta di ‘Dna’ che con la riproduzione naturale della specie si trasmette analogamente ai caratteri fisiologici del Dna del corpo - quel ‘peccato’ contagiò nel ‘complesso psico-fisico’ tutta la successiva discendenza.
Il Battesimo – per qualche processo divino tanto misterioso come lo è quello dell’Eucarestia dove Gesù si rende presente - libera dal Peccato originale, o meglio risana la ferita, ma non ne toglie la ‘cicatrice’: cioè i ‘fomiti’ che ne sono la conseguenza, per cui l’uomo anche se battezzato non riacquista più la Forza e l’Integrità che aveva l’uomo originario che noi chiamiamo Adamo.
Ricordo ancora – a proposito della caduta provocata dal Male - un passo dell’Opera nel quale Gesù parlava di quella che sarebbe stata la vera 'evoluzione' della razza umana se questa non avesse appunto compiuto il Peccato d’origine che l’aveva fatta precipitare nella barbarie spirituale, intellettuale e nella fragilità fisica.
Il concetto era grosso modo questo: così come - nelle razze animali - l’incrocio fra esemplari con caratteristiche razziali eccellenti porta nei discendenti delle caratteristiche genetiche che sommano il meglio dei due genitori, e così via, dando luogo ad un progressivo perfezionamento delle caratteristiche razziali, così pure nell’animale-uomo - ove egli fosse rimasto indenne dal Peccato originale, uomo integro nel corpo, nella mente e nello spirito, con la pienezza della Grazia santificante - la riproduzione avrebbe dato vita a uomini sempre più perfetti, a veri superuomini, una sorta di semidei. Essi avrebbero potuto entrare in Paradiso, passando in qualche modo dalla terra al cielo col loro corpo, come successe ad esempio nell’assunzione al Cielo di Maria in una specie di estasi, di ‘dormizione’, di trapasso da questa realtà terrena all’altra soprannaturale senza dolore di ‘vera’ morte nel senso umano della parola.
Tanto tremenda è stata invece la conseguenza della Colpa d’origine che ora la razza umana – invece che ad una ‘evoluzione ascendente’ da uomini spirituali a superuomini spirituali (questa sì che sarebbe stata una vera evoluzione) - si spinge inesorabilmente verso una ‘evoluzione’ spiritualmente discendente dove nel futuro dell’Umanità, se vi saranno da un lato esseri umani spiritualmente sempre più perfetti nel Bene, ma saranno una parte minoritaria, dall’altro se ne vedranno molti spiritualmente sempre più perfetti nel Male, una razza cioè non di superuomini, quali gli evoluzionisti sono convinti che diventeranno, ma di ‘superdemoni’.
Il Peccato originale – e ribadisco questo concetto per fissarcelo bene nella mente - fu dunque ‘provvidenziale’ perché se i primi due uomini non avessero sbagliato e non fossero piombati nel fango, conoscendone tutte le miserie, i successivi – nel loro libero arbitrio (che non è condanna ma dono perché altrimenti saremmo non ‘figli’ di Dio ma automi) migliorandosi continuamente nella moltiplicazione, e quindi di generazione in generazione, sarebbero diventati sempre più perfetti e avrebbero finito, nel loro libero arbitrio, di ritenersi del tutto perfetti, cioè come Dio, anzi loro Déi, come Lucifero. E si sarebbero ribellati: non disobbedienza ribelle, ma vera ribellione. E avrebbero meritato la condanna: eterna, immediata, come Lucifero.
Se Dio aveva però permesso al veleno del Peccato originale di diffondersi nella discendenza dell’uomo, per questo veleno Dio aveva già fin dall’eternità predisposto l’Antidoto: il suo Verbo, che si sarebbe incarnato nel seno purissimo di Maria SS.
Ricordo un brano del Gesù valtortiano, tratto da un capitolo de ‘L’Evangelo', dove Egli parla della nascita di Maria SS. (i grassetti sono miei):11
(…)
Dice Gesù:
… All'uomo e alla donna, depravati da Satana, Dio volle opporre l'Uomo nato da Donna soprasublimata da Dio, al punto di generare senza aver conosciuto uomo: Fiore che genera Fiore senza bisogno di seme, ma per unico bacio del Sole sul calice inviolato del Giglio-Maria.
La rivincita di Dio! Fischia, o Satana, il tuo livore mentre Ella nasce. Questa Pargola ti ha vinto! Prima che tu fossi il Ribelle, il Tortuoso, il Corruttore, eri già il Vinto, e Lei è la tua Vincitrice.
Mille eserciti schierati nulla possono contro la tua potenza, cadono le armi degli uomini contro le tue scaglie, o Perenne, e non vi è vento che valga a disperdere il lezzo del tuo fiato.
Eppure questo calcagno d'infante, che è tanto roseo da parere l'interno di una camelia rosata, che è tanto liscio e morbido che la seta è aspra al paragone, che è tanto piccino che potrebbe entrare nel calice di un tulipano e farsi di quel raso vegetale una scarpina, ecco che ti preme senza paura, ecco che ti confina nel tuo antro.
Eppure ecco che il suo vagito ti fa volgere in fuga, tu che non hai paura degli eserciti, e il suo alito purifica il mondo dal tuo fetore.
Sei vinto. Il suo nome, il suo sguardo, la sua purezza sono lancia, folgore e pietrone che ti trafiggono, che ti abbattono, che ti imprigionano nella tua tana d'Inferno, o Maledetto, che hai tolto a Dio la gioia d'esser Padre di tutti gli uomini creati!
Inutilmente ormai li hai corrotti, questi che erano stati creati innocenti, portandoli a conoscere e a concepire attraverso a sinuosità di lussuria, privando Dio, nella creatura sua diletta, di essere l'elargitore dei figli secondo regole che, se fossero state rispettate, avrebbero mantenuto sulla terra un equilibrio fra i sessi e le razze, atto ad evitare guerre fra popoli e sventure fra famiglie.
Ubbidendo, avrebbero pur conosciuto l'amore. Anzi, solo ubbidendo avrebbero conosciuto l'amore e l'avrebbero avuto. Un possesso pieno e tranquillo di questa emanazione di Dio, che dal soprannaturale scende all'inferiore, perché anche la carne ne giubili santamente, essa che è congiunta allo spirito e creata dallo Stesso che le creò lo spirito.
Ora il vostro amore, o uomini, i vostri amori, che sono?
O libidine vestita da amore. O paura insanabile di perdere l'amore del coniuge per libidine sua e di altri.
Non siete mai più sicuri del possesso del cuore dello sposo o della sposa, da quando libidine è nel mondo. E tremate e piangete e divenite folli di gelosia, assassini talora per vendicare un tradimento, disperati talaltra, abulici in certi casi, dementi in altri.
Ecco che hai fatto, Satana, ai figli di Dio.
Questi, che hai corrotti, avrebbero conosciuto la gioia di aver figli senza avere il dolore, la gioia d'esser nati senza paura del morire.
Ma ora sei vinto in una Donna e per la Donna.
D'ora innanzi chi l'amerà tornerà ad esser di Dio, superando le tue tentazioni per poter guardare la sua immacolata purezza.
D'ora innanzi, non potendo concepire senza dolore, le madri avranno Lei per conforto.
D'ora innanzi l'avranno le spose a guida e i morenti a madre, per cui dolce sarà il morire su quel seno che è scudo contro te, Maledetto, e contro il giudizio di Dio.

9.3 Dall’umiliazione subita da Maria Maddalena nel corso del sesto Discorso della montagna inizierà una ‘macerazione’ che poi la porterà gradatamente alla conversione.

Nelle ultime pagine della ‘riflessione’ precedente – dopo aver conosciuto in quella sua irruzione sul monte la Maria di Magdala lussuriosa e peccatrice - vi avevo anticipato che lei si sarebbe in seguito convertita, sarebbe diventata una splendida discepola e avrebbe chiesto di espiare i suoi peccati – pur ormai perdonati da Gesù - con la sofferenza.
È da quella salutare lezione ed umiliazione sulla ‘montagna’ che inizia infatti un processo di autocritica spirituale che porterà qualche mese dopo alla conversione della Maddalena la cui dissolutezza era stata fonte di grandissimo dolore e vergogna per Lazzaro e Marta e di scandalo in tutta Gerusalemme.
Il seguito della sua storia – dopo l’episodio della montagna - è ben raccontato nell’Evangelo Valtortiano.
Ella, sulla via di un inizio di pentimento, cercherà di andare di nascosto ad ascoltare gli ammaestramenti di Gesù.
Sarà in una di queste occasioni che Gesù, sapendola alle sue spalle (non vista dalla gente) al di qua dell’argine che borda la via, improvviserà e racconterà proprio per lei la ‘parabola’ del Buon Pastore alla ricerca della ‘pecorella smarrita’12.
Parabola davvero commovente, di tenero amore di Gesù per tutti i peccatori dispersi, e anche in quel caso come nel precedente discorso della montagna, lei comprenderà che la ‘pecorella smarrita’ - che Egli, il Buon Pastore della Parabola, cercava - era proprio un riferimento a lei, a lei che lo stava ascoltando credendo di non essere stata vista.
Maria rimarrà sconvolta dalla dolcezza della Parabola e piangerà sotto il suo scuro velo, piano e continuamente e quello sarà l’inizio del suo crollo, o meglio della sua ascesa.
Stiamo meditando sul Bene e sul Male e - anche se Maria di Magdala fu grande nel Male - poi lo sarebbe stata ancora di più nel Bene.
La parabola del Buon Pastore che cerca la sua ‘pecorella smarrita’ è riportata stringatamente nel Vangelo di Matteo ma a costo di andare un poco fuori tema ve ne presento qui sotto la versione originale del Gesù valtortiano, consapevole del fatto che se è servita a convertire la Maddalena, potrebbe anche servire a convertire noi.
233. La parabola della pecorella smarrita, ascoltata anche da Maria di Magdala.13
[12 agosto 1944.]
Gesù parla alle folle. Montato sul margine arborato di un torrentello, parla a molta gente sparsa su un campo che ha il grano segato e mostra l'aspetto desolante delle stoppie arse.
É sera. Il crespuscolo scende, ma già sale la luna. Una bella e chiara sera di prima estate. Dei greggi tornano all'ovile e il din-don dei campanacci si mescola ad un grande cantare di grilli o cicale, un grande gri, gri, gri...
Gesù prende lo spunto dalle mandre che passano.
Dice: «Il Padre vostro è come un pastore sollecito. Che fa il pastore buono? Cerca pascoli buoni per le sue pecorelle, quelli dove non sono cicute e tossici, ma dolci trifogli, aromatiche mentucce e amari ma salutiferi radicchi. Cerca là dove insieme al cibo sia fresco e puro ruscello e ombria di piante e non regnino aspidi fra il verde delle zolle.
Non si cura di preferire i pascoli più grassi perché sa che in essi è facile trovare insidia di colubri e d'erbe nocive, ma dà le sue preferenze ai pascoli montani, dove le rugiade fan monda e fresca l'erbetta, ma il sole la pulisce dai rettili, là dove l'aria è mossa e buona e non pesante e malsana come quella di pianura.
Il buon pastore osserva una per una le sue pecore. Le cura se sono malate, le medica se ferite. A quella che si ammalerebbe per troppa ingordigia di cibo dà la voce, all'altra che prenderebbe un male per rimanere troppo all'umido o troppo al sole dice di venire in altro luogo. E se una svogliata non mangia, egli le cerca gli steli aciduli e aromatici atti a risvegliarle l'appetito e glieli porge di sua mano parlandole come a persona amica.
Così fa il Padre buono che è nei Cieli coi suoi figli erranti sulla Terra.
Il suo amore è la verga che li raduna, la sua voce é la guida, i suoi pascoli la sua Legge, il suo ovile il Cielo.
Ma ecco che una pecorella lo lascia. Quanto Egli l'amava! Era giovane, pura, candida, come nuvola in cielo d'aprile. Il pastore la guardava con tanto amore, pensando a quanto bene poteva ad essa fare e quanto amore riceverne. Ed essa lo abbandona.
É passato, lungo la via che costeggia il pascolo, un tentatore. Non ha la casacca austera, ma veste una veste di mille colori. Non ha cintura di pelle con l'ascia e il coltello pendenti, ma una cintura d'oro da cui pendono sonagli argentini, melodiosi come voce di usignolo, e fiale di essenze che inebbriano...
Non ha bordone come il pastore buono col quale radunare e difendere le pecore, e se non basta il bordone egli è pronto a difenderle con l'ascia e coltello e anche con la vita. Ma questo tentatore che passa ha fra le mani un turibolo brillante di gemme, da cui sale un fumo che è lezzo e profumo insieme, ma che sbalordisce così come lo sfaccettìo dei gioielli - oh! quanto falsi! - abbacina.
Egli va cantando e lascia cadere manate di un sale che brilla sulla strada oscura...
Novantanove pecore guardano e stanno. La centesima, la più giovane e cara, fa un balzo e scompare dietro al tentatore. Il pastore la chiama. Ma lei non torna. Va più veloce del vento per raggiungere colui che è passato e, per sorreggersi nella corsa, gusta di quel sale che le scende dentro e la brucia di un delirio strano per cui anela ad acque fonde e verdi in un cupo di selve. E nelle selve, dietro il tentatore, si sprofonda e penetra e sale e scende e cade... una, due, tre volte. E una, due, tre volte sente intorno al suo collo l'abbraccio viscido dei rettili, e volendo bere beve acque inquinate, e volendo nutrirsi morde erbe lucide di bave schifose.
Che fa intanto il pastore buono? Chiude al sicuro le novantanove fedeli e poi si pone in cammino, e non resta di andare sinché non trova tracce della perduta. Poiché ella non torna a lui, che pure affida ai venti le sue parole di richiamo, egli va a lei. E la vede da lungi, ebbra fra le spire dei rettili, tanto ebbra che non sente nostalgia del volto che l'ama; e lo deride.
E la rivede, colpevole di esser penetrata, ladra, nell'altrui dimora, tanto colpevole che non osa più guardarlo...
Eppure il pastore non si stanca... e va. La cerca, la cerca, la segue, l'incalza. Piangendo sulle tracce della perduta - lembi di vello: lembi d'anima; tracce di sangue: delitti diversi; lordure: prove della sua lussuria - egli va e la raggiunge.
Ah! ti ho trovata, diletta. Ti ho raggiunta! Quanto cammino ho fatto per te. Per riportarti all'ovile.
Non chinare la fronte avvilita. Il tuo peccato è sepolto nel mio cuore. Nessuno, fuorché Io che ti amo, lo conoscerà.
Io ti difenderò dalle critiche altrui, ti coprirò con la mia persona per farti scudo contro le pietre degli accusatori. Vieni. Sei ferita? Oh! mostrami le tue ferite. Le conosco. Ma voglio che tu me le mostri con la confidenza che avevi quando eri pura e guardavi a me, tuo pastore e dio, con occhio innocente. Eccole. Hanno tutte un nome. Come sono profonde!
Chi te le ha fatte tanto profonde queste nel fondo del cuore? Il Tentatore, lo so. É lui che non ha bordone né ascia, ma che colpisce più a fondo col suo morso avvelenato, e dietro a lui colpiscono i gioielli falsi del suo turibolo: coloro che ti hanno sedotta col loro brillare... e che erano zolfi d'inferno tratti alla luce per arderti il cuore. Guarda quante ferite! Quanto vello lacerato, quanto sangue, quanti rovi. O povera piccola anima illusa!
Ma dimmi: se Io ti perdono, tu mi ami ancora?
Ma dimmi: se Io ti tendo le braccia, tu vi accorri?
Ma dimmi: hai sete dell'amore buono?
E allora vieni e rinasci. Torna nei pascoli santi. Piangi. Il tuo col mio pianto lavano le tracce del tuo peccato, ed Io per nutrirti, poiché sei consumata dal male che ti ha arsa, mi apro il petto, le vene mi apro, e ti dico: "Pasciti, ma vivi!".
Vieni, che ti prendo sulle braccia. Andremo più solleciti ai pascoli santi e sicuri. Tutto dimenticherai di quest'ora disperata. E le novantanove sorelle, le buone, giubileranno per il tuo ritorno perché, Io te lo dico, mia pecorella smarrita che ho cercato venendo da tanto lontano, che ho raggiunto, che ho salvato, si fa più festa fra i buoni per uno smarrito che torna, che non per novantanove giusti che mai si sono allontanati dall'ovile».
Gesù non si è mai voltato a guardare sulla via che ha alle spalle e sulla quale è sopraggiunta, fra le penombre della sera, Maria di Magdala, ancora elegantissima, ma vestita almeno, e ricoperta da un velo oscuro che ne confonde i tratti e le forme. Ma quando Gesù parla dal punto: «Io ti ho trovata, diletta», Maria porta le mani sotto al velo e piange, piano e continuamente. La gente non la vede perché ella è al di qua dell'argine che borda la via. La vede solo la luna ormai alta e lo spirito di Gesù... il quale mi dice: «Il commento è nella visione. Ma te ne parlerò ancora. Ora riposa perché è ora. Ti benedico, Maria fedele».
La Maddalena si convertirà, diventerà un gigante della spiritualità, sublimerà la sua ardente originaria passione umana in una capacità di amare in chiave spirituale.
Ella diventerà la più ardente discepola di Gesù, sarà anzi nei Vangeli la prima persona – a parte Maria SS. alla quale Gesù apparve per prima in segreto – che, già grande peccatrice poi ravveduta, avrà proprio per questo, anche quale rappresentante di tutti i peccatori per i quali il Verbo si è incarnato e Gesù si è sacrificato, l’onore ed il dono di vedere Gesù appena risorto e prima di tutti gli apostoli, un Gesù che lei chiamerà ‘Rabboni’, cioè ‘Maestro’, come scrive Giovanni nel suo Vangelo.14
Come in precedenza avevo già accennato, lei arriverà a chiedere a Gesù, dopo la resurrezione di Lazzaro, il dono del martirio di sofferenza d’amore per espiare le sue colpe per le quali – benché perdonata – ella non saprà più darsi pace.
Avendo compreso il valore della sofferenza corredentiva, lei vorrà dunque espiare soffrendo, dedicandosi ad una vita di preghiera e di stenti in Francia, dove fonti di antica Tradizione raccontano che Lazzaro con le due sorelle e altri suoi dipendenti di Betania fossero emigrati per evangelizzare quelle popolazioni, obbedendo in ciò al comando per eccellenza di Gesù impartito varie volte e ancora poco prima della Ascensione: ‘Andate ed evangelizzate tutte le genti… fino alle estremità della terra’.
Maria Maddalena si dedicò dunque a vita ascetica, e così infatti la Valtorta – che già l’aveva descritta nel Discorso della Montagna nella sua sfolgorante bellezza profana che anche voi avete ammirato – la vede ora nella seguente visione ( i grassetti sono miei): 15
30 ‑ 3 ‑ 44.
Vedo una spelonca rocciosa in cui è un giaciglio di foglie ammassate su un rustico telaio di rami intrecciati e legati da giunchi. Deve essere comodo come uno strumento di tortura.
La grotta ha inoltre un pietrone che fa da tavola e uno più piccolo che fa da sedile.
Contro il lato più fondo ve ne è un altro: uno scheggione sporgente dalla roccia che, non so se naturalmente o con paziente e faticosa opera umana, è stato tratto a pulimento e presenta una superficie abbastanza liscia.
Su questo, che pare un rustico altare, è posata una croce fatta di due rami tenuti insieme da vimini.
L’abitante della grotta ha inoltre piantato in una fessura terrosa del suolo una pianta di edera e ne ha condotto i rami a incorniciare la croce e ad abbracciarla, mentre in due rustici vasi, che paiono modellati nella creta da mano inesperta, stanno dei fiori selvatici colti nelle vicinanze, e proprio ai piedi della croce, in una conchiglia gigante, è una pianticella di ciclamino selvatico con le piccole foglie ben nette e due bocci che sono prossimi a fiorire.
Ai piedi di questo altare vi è un fascio di rami spinosi e un flagello di corde annodate. Nella grotta vi è inoltre un rustico orciolo con dell’acqua. Null’altro.
Dall’apertura stretta e bassa si vede uno sfondo di monti, e per una luminosità mobile che si intravvede lontano si direbbe che da questo punto sia visibile il mare. Ma non lo posso assicurare. Dei rami penduli d’edere e caprifogli e di rosai selvatici, tutta la solita pompa dei luoghi alpestri, pendono sull’apertura e fanno come un velo mobile che separa l’interno dall’esterno.
Una donna scarna, vestita di una rustica veste scura sulla quale è posata una pelle di capra come mantello, entra nella grotta smuovendo i rami penduli. Pare esausta.
La sua età è indefinibile. Se si dovesse giudicare il volto appassito, le si darebbero molti anni: oltre sessanta.
Se si dovesse giudicare la chioma ancor bella, folta, dorata, non più di un quaranta.
Essa le pende in due trecce lungo le spalle curve e magre, ed è l’unica cosa che splenda in quello squallore.
La donna sarà stata certo bella perché la fronte è ancor alta e liscia, il naso ben fatto e l’ovale, per quanto smagrito dall’estenuazione, regolare.
Ma gli occhi non hanno più fulgore. Sono fortemente affondati nell’orbita e segnati da due bistri bluastri. Due occhi che denunciano il molto pianto versato.
Due rughe, quasi due cicatrici, si sono intagliate dall’angolo dell’occhio lungo il naso e vanno a perdersi in quell’altra caratteristica ruga di chi molto ha sofferto, che dalle narici scende come un accento circonflesso agli angoli della bocca.
Le tempie sono come scavate e le vene azzurre si disegnano nel grande pallore. La bocca pende con curva stanca ed è di un roseo pallidissimo.
Un tempo deve essere stata una splendida bocca, ora è sfiorita. La curva delle labbra è simile a quella di due ali che pendano spezzate. Una bocca dolorosa.
La donna si trascina sino al masso che fa da tavolo e vi posa sopra dei mirtilli e delle fragole selvatiche. Poi va all’altare e si inginocchia. Ma è così spossata che nel farlo quasi cade e deve sorreggersi con una mano al masso.
Prega guardando la croce e delle lacrime scendono per il solco sino alla bocca che le beve. Poi lascia cadere la sua pelle di capra e resta con la sola rozza tunica e prende i flagelli e le spine. Stringe i rami spinosi intorno al suo capo e ai suoi lombi e si flagella con le corde. Ma è troppo debole per farlo. Lascia cadere il flagello e, appoggiandosi all’altare con ambe le mani e la fronte, dice: “Non posso più, Rabboni! Più soffrire, in ricordo del tuo dolore!”.
La voce me la fa riconoscere. È Maria di Magdala.
Sono nella sua grotta di penitente.
Maria piange. Chiama Gesù con amore. Non può più soffrire. Ma amare può ancora.
La sua carne macerata dalla penitenza non resiste più alla fatica del flagellarsi, ma il cuore ha ancora palpiti di passione e si consuma nelle sue ultime forze amando. Ed ella ama, restando con la fronte incoronata di spine e la vita serrata nelle spine, ama parlando al suo Maestro in una continua professione d’amore e in un rinnovato atto di dolore.
È scivolata con la fronte a terra. La stessa posa16 che aveva sul Calvario di fronte a Gesù deposto sul grembo di Maria, la stessa che aveva nella casa di Gerusalemme quando la Veronica spiegava il suo velo, la stessa che aveva nell’orto di Giuseppe d’Arimatea quando Gesù la chiamò ed ella lo riconobbe e lo adorò.
Ma ora piange perché Gesù non c’è.
“La vita mi fugge, Maestro mio. E dovrò morire senza rivederti? Quando potrò bearmi del tuo viso? I miei peccati stanno di fronte a me e mi accusano. Tu mi hai perdonata, e credo che l’inferno non mi avrà. Ma quanta sosta nell’espiazione prima di vivere di Te!
Oh! Maestro buono! Per l’amore che mi hai dato conforta l’anima mia! L’ora della morte è venuta. Per il tuo morire desolato sulla croce conforta la tua creatura! Tu mi hai generata.
Tu. Non la madre mia. Tu mi hai risuscitata più che non risuscitasti Lazzaro, fratello mio. Poiché egli era già buono e la morte non poteva che esser attesa nel tuo Limbo. Io ero morta nell’anima e morire voleva dire morire in eterno. Gesù, nelle tue mani raccomando lo spirito mio! È tuo perché Tu l’hai redento. Accetto per ultima espiazione di conoscere l’asprezza del tuo morire abbandonato. Ma dammi un segno che la mia vita ha servito ad espiare il mio peccare”.
“Maria!” Gesù è apparso.
Pare scendere dalla rustica croce. Ma non è piagato e morente.
È bello come la mattina della Risurrezione.
Scende dall’altare e va verso la prostrata.
Si curva su lei. La chiama ancora, e poiché ella pare credere che quella Voce suoni per i suoi sensi spirituali e, volto a terra come è, non vede la luce che Cristo irradia, Egli la tocca posandole una mano sul capo e prendendola per il gomito come a Betania per rialzarla.17
Quando ella si sente toccata e riconosce dalla lunghezza quella mano, ha un gran grido.
E alza un volto trasfigurato di gioia. E lo abbassa per baciare i piedi del suo Signore.
“Alzati, Maria. Sono Io. La vita fugge. È vero. Ma Io vengo a dirti che il Cristo ti aspetta.
Non vi è attesa per Maria. Tutto è perdonato a lei. Dal primo momento fu perdonato.
Ma ora è più che perdonato. Il tuo posto è già pronto nel mio Regno. Sono venuto, Maria, per dirtelo. Non ho dato ordine all’angelo di farlo perché Io rendo il centuplo di quanto ricevo ed Io ricordo quanto ho da te ricevuto. Maria, riviviamo insieme un’ora passata.
Ricorda Betania18. Era la sera dopo il sabato. Mancavano sei giorni al mio morire. La tua casa, la ricordi? Era tutta bella nella cintura fiorita del suo frutteto. L’acqua cantava nella vasca e le prime rose odoravano intorno alle sue mura. Lazzaro mi aveva invitato alla sua cena e tu avevi spogliato il giardino dei fiori più belli per ornare la tavola dove il tuo Maestro avrebbe preso il suo cibo. Marta non aveva osato rimproverarti perché si ricordava le mie parole19 e ti guardava con una dolce invidia perché tu splendevi di amore andando e venendo nei preparativi. E poi Io ero giunto. E più rapida di una gazzella tu eri corsa, precedendo i servi, ad aprire il cancello col tuo grido abituale. Pareva sempre il grido di una prigioniera liberata. Infatti Io ero la tua liberazione e tu eri una prigioniera liberata. Gli apostoli erano con Me. Tutti. Anche quello che ormai era come un membro incancrenito del corpo apostolico. Ma vi eri tu a prendere il suo posto. E non sapevi che guardando il tuo capo curvato nel bacio ai miei piedi e il tuo occhio sincero e pieno d’amore, guardando soprattutto lo spirito tuo, Io dimenticavo il disgusto di avere al fianco il traditore.
Ho voluto te sul Calvario per questo. Te nell’orto di Giuseppe per questo. Perché vederti era esser sicuro che la mia morte non era senza scopo. E mostrarmi a te era ringraziamento per il tuo fedele amore. Maria, tu benedetta che non hai mai tradito, che mi hai confermato nella speranza mia di Redentore, tu in cui vidi tutti i salvati dal mio morire! Mentre tutti mangiavano, tu adoravi. Mi avevi dato l’acqua profumata per i miei piedi stanchi e baci casti e ardenti per le mie mani e, non contenta ancora, hai voluto infrangere l’ultimo tuo prezioso vaso e ungermi il capo ravviandomi i capelli come una mamma, e ungermi le mani e i piedi perché tutto del tuo Maestro odorasse come membra di Re consacrato... E Giuda, che ti odiava perché eri onesta ora e respingevi con la tua onestà le cupidigie dei maschi, ti aveva rimproverata... Ma Io ti avevo difesa perché tu avevi compiuto tutto per amore, un amore così grande che il suo ricordo venne meco nell’agonia dalla sera del giovedì all’ora di nona...
Ora, per questo atto di amore che tu mi hai dato alla soglia della mia morte, Io vengo, alla soglia della tua morte, a renderti amore. Il tuo Maestro ti ama, Maria. Egli è qui per dirti questo. Non avere timore, non ansia di altra morte. Il tuo morire non è diverso da quello di chi versa il suo sangue per Me. Che dà il martire? La sua vita per l’amore del suo Dio. Che dà il penitente? La sua vita per l’amore del suo Dio. Che dà l’amante? La sua vita per l’amore del suo Dio. Vedi che non vi è differenza. Martirio, penitenza, amore consumano lo stesso sacrificio e per lo stesso fine. In te, dunque, penitente e amante, è il martirio come in chi perisce nelle arene.
Maria, Io ti precedo nella gloria. Baciami la mano e posa in pace. Riposa. È tempo per te di riposare. Dammi le tue spine. Ora è tempo di rose. Riposa e aspetta. Ti benedico, benedetta”.
Gesù ha obbligato Maria a coricarsi sul suo giaciglio. E la santa, col viso lavato di un pianto d’estasi, si è stesa come il suo Dio ha voluto ed ora pare dormire con le braccia conserte al seno, con le lacrime che continuano a scendere, ma la bocca che ride.
Si rialza a sedere quando un fulgore vivissimo si fa nella grotta per la venuta di un angelo portante un calice che posa sull’altare e che adora. Anche Maria, inginocchiata presso il lettuccio, adora. Non può più muoversi. Le forze calano. Ma è beata. L’angelo prende il calice e la comunica. Poi risale al Cielo.
Maria, come un fiore arso da troppo sole, si piega, si piega con le braccia ancora conserte sul seno e cade col viso fra le foglie del giaciglio.
È morta. L’estasi eucaristica ha reciso l’ultimo filo vitale.

9.4 Un ‘intermezzo’ imprevisto per tutti, ma non per la Divina Volontà. La doppia natura di Gesù…

Avevamo detto che con il tema della scelta fra Bene e Male, l’adulterio e il divorzio, si era praticamente chiuso il Discorso della montagna.
Ricorderete che la seconda parte del sesto discorso di Gesù, dopo la fuga della Maddalena, era ripresa nel pomeriggio ed Egli - invitando i presenti a ricordare le sue parole e ad essere riflessivi e prudenti come colui che costruisce la propria casa sulla solida roccia - aveva poi concluso:
(…)
Ho finito. Ora Io scendo verso il lago e vi benedico nel nome di Dio uno e trino. La mia pace sia con voi».
Ma la folla urla: «Veniamo con Te. Lasciaci venire! Nessuno ha le tue parole!».
E si danno a seguire Gesù, che scende non dalla parte presa nel salire ma da quella opposta e che va in direzione diretta di Cafarnao.
La discesa è più ripida, ma è molto più svelta, e presto giungono ai piedi del monte che si adagia in una pianura verde e fiorita.
(Gesù dice: «Basta per oggi. Domani...»).
In realtà però il discorso non era finito perché Gesù-Uomo-Dio – in quanto Uomo – era anch’Egli talvolta soggetto agli imperscrutabili disegni della Provvidenza quando la natura di Verbo che era in lui non consentiva alla sua natura di uomo di conoscere il futuro.
Giunti infatti tutti ai piedi del monte, é proprio qui che avviene infatti un incontro inatteso – un intermezzo umanamente imprevedibile ma certo rientrante nei misteriosi progetti della Volontà divina – intermezzo che poi il giorno successivo fornirà a Gesù l’occasione per un ‘discorso’ in più, il settimo: quello appunto dell’importanza fondamentale del fare la Volontà di Dio.
Ecco dunque cosa vede in visione Maria Valtorta:20
30 maggio 1945.
Fra i tanti fiori che profumano il suolo e allietano la vista si drizza l'orrendo spettro di un lebbroso, piagato, fetente, corroso.
La gente urla di spavento e si rovescia di nuovo sulle prime pendici del monte. Qualcuno afferra anche selci per tirarle all'imprudente. Ma Gesù si volge a braccia aperte gridando: «Pace! State dove siete e non abbiate paura. Posate le pietre. Abbiate pietà del povero fratello. E’ lui pure figlio di Dio».
La gente ubbidisce, soggiogata dal potere del Maestro. Il quale si avanza attraverso le alte erbe in fiore sino a pochi passi dal lebbroso, che a sua volta, quando ha capito di essere protetto da Gesù, si è avvicinato.
Giunto vicino a Gesù, si prostra, e l'erba fiorita lo accoglie e sommerge come un'acqua fresca e profumata. I fiori ondeggiano e si riuniscono quasi facendo velo sulla miseria che in essi si è celata. Solo la voce che esce lamentosa di là dentro ricorda che un povero essere è presente. Essa dice: «Signore, se Tu vuoi, puoi mondarmi. Abbi pietà anche di me!»
Gesù risponde: «Alza il tuo volto e guardami. L'uomo deve sapere guardare il Cielo quando crede in esso. E tu credi, poiché chiedi».
Le erbe si scuotono e si aprono di nuovo. Appare, come capo di naufrago che emerga dal mare, il volto, denudato dei capelli e della barba, del lebbroso. Un capo di teschio non ancora del tutto spoglio dei resti della carne.
Pure Gesù osa posare la punta delle sue dita su quella fronte, là nel punto dove è netta, ossia senza piaghe, dove è solo pelle cinerea, scagliosa, fra due marciose erosioni di cui una ha distrutto il cuoio capelluto e l'altra ha aperto un buco dove era l'occhio destro, di modo che non saprei dire se fra quell'enorme buco che va dalla tempia al naso scoprendo lo zigomo e la cartilagine nasale, pieno di lordura, sia ancora il globo oculare o no.
E dice Gesù, tenendo la sua bella mano appoggiata, per la punta, lì: «Lo voglio. Sii mondato».
E come se l'uomo non fosse corroso e impiagato; ma solo ricoperto di sudiciume e su questo si riversassero acque detergenti, ecco che la lebbra sparisce. Per prime le piaghe si chiudono, poi torna chiara la pelle, l'occhio destro riappare fra la rinata palpebra, le labbra si rinchiudono sui denti giallastri. Solo i capelli e la barba rimangono assenti, ossia con rari ciuffetti di peli, là dove prima era ancora un pezzettino di epidermide sana.
La folla urla di stupore. E l'uomo capisce di essere guarito per quelle urla di giubilo.
Alza le mani, fino allora nascoste dalle erbe, e si tocca l'occhio, là dove era l'enorme buco; si tocca il capo, là dove era la grande piaga scoprente l'osso cranico, e sente la nuova pelle. Allora si alza e si guarda il petto, le anche... Tutto è sano e mondo... L'uomo si riaccascia nel prato fiorito piangendo di gioia.
«Non piangere. Alzati e ascoltami. Torna alla vita secondo il rito e non parlare ad alcuno finché non lo hai compito. Mostrati al più presto al sacerdote, fa' l'offerta prescritta da Mosè in testimonianza del miracolo avvenuto della tua guarigione».
«A Te lo dovrei testimoniare, Signore!».
«Me lo testimonierai amando la mia dottrina. Va'.»
2La folla si è accostata di nuovo e, pur a dovuta distanza, si felicita col miracolato. C'è chi sente bisogno di dargli un viatico per il viaggio e gli getta delle monete. Altri lanciano pani e cibarie e uno, vedendo che la veste del lebbroso non è che uno sbrendolo sfrangiato che lascia tutto visibile, si leva il mantello, lo annoda come fosse un fazzolettone e lo getta al lebbroso, che può così ricoprirsi in maniera decente. Un altro, poiché la carità è contagiosa quando è in comune, non resiste alla voglia di fornirgli i sandali e se li leva e li getta.
«Ma, e tu?» chiede Gesù che vede l'atto.
«Oh! io sto qui vicino. Posso camminare scalzo. Lui deve fare molta strada».
«Dio benedica te e tutti coloro che hanno beneficato il fratello. Uomo, pregherai per questi».
«Sì, sì, per essi e per Te, perché il mondo abbia fede in Te».
«Addio. Va' in pace».
L'uomo si allontana di qualche metro e poi si volge e grida: «Ma al sacerdote lo posso dire che Tu mi hai guarito?».
«Non occorre. Di' solo: "Il Signore ha avuto di me misericordia ". C'è tutta la verità e non occorre altro».
3La gente si stringe al Maestro, un cerchio che non si vuole aprire a nessun costo. Ma intanto il sole è calato e si inizia il riposo del sabato. I paesi sono lontani. Ma la gente non rimpiange paesi, non cibi, nulla. Se ne preoccupano però gli apostoli e lo dicono a Gesù. Anche i discepoli anziani sono in pensiero. Ci sono le donne e i bambini, e se la notte è tiepida, e soffice è l'erba dei prati, le stelle non sono pane, né si fanno cibarie i sassi delle prode.
Gesù è l'unico che non se la prende. La gente intanto mangia i suoi avanzi come nulla fosse, e Gesù lo fa notare ai suoi: «In verità vi dico che costoro sono da più di voi! Guardate con che spensieratezza danno fine a tutto.
Ho detto loro: "Chi non può credere che domani Dio darà cibo ai suoi figli si ritiri", ed essi sono rimasti. Dio non smentirà il suo Messia e non deluderà chi spera in Lui».
Gli apostoli si stringono nelle spalle e non si occupano d'altro.
La sera scende dopo un gran rosso di tramonto, placida e bella, e il silenzio della campagna si distende su tutte le cose, dopo l'ultimo coro degli uccelli. Qualche fruscio di vento e poi un primo volo muto di uccello notturno insieme alla prima stella e al primo gracidare di un ranocchio.
I bambini dormono già. Gli adulti parlano fra loro e ogni tanto qualcuno va dal Maestro a chiedere qualche schiarimento. 4Di modo che non fa stupore quando, attraverso ad un sentiero fra due campi di grano, si vede venire una persona imponente d'aspetto, di abiti e di età. Dietro di lui sono degli uomini. Tutti si volgono a guardarlo e se lo indicano bisbigliando. Il sussurro corre da gruppo a gruppo, si riaccende e si spegne. I gruppi più lontani si accostano attirati dalla curiosità.
L'uomo di nobile aspetto raggiunge Gesù, che seduto ai piedi di un albero ascolta degli uomini, e lo saluta profondamente. Gesù si alza subito e risponde con pari rispetto al saluto. I presenti sono tutta attenzione.
«Ero sul monte e forse Tu hai pensato che io non avessi fede perché me ne andavo per tema di un digiuno. Ma io me ne andavo per altro motivo. Volevo essere fratello fra i fratelli, il fratello maggiore. Vorrei dirti il mio pensiero in disparte. Puoi udirmi? Non ti sono nemico, per quanto io sia uno scriba».
«Andiamo un poco lungi...» e se ne vanno in mezzo ai grani.
«Volevo provvedere al cibo dei pellegrini e sono sceso per ordinare di panificare per una moltitudine. Vedi che sono nello spazio legale, poiché questi campi mi appartengono e da qui alla vetta si può fare in sabato. Sarei venuto domani coi servi. Ma ho saputo che Tu sei qui con la folla. Ti prego di permettermi di provvedere nel sabato. Altrimenti troppo mi spiacerebbe avere rinunciato alle tue parole per nulla».
«Per nulla mai, perché il Padre ti avrebbe compensato con le sue luci. Ma Io ti ringrazio e non ti deludo. Solo ti faccio osservare che la folla è molta».
«Ho fatto accendere tutti i forni, anche quelli usati per essiccare derrate, e riuscirò ad avere pane per tutti».
«Non è per questo. Dico per la quantità di pane...»
«Oh! Non mi scomoda. Lo scorso anno ebbi molto grano. Quest'anno Tu vedi che spighe. Lasciami fare. Sarà la migliore sicurezza sulla mia campagna. E poi, Maestro... Tu mi hai dato un tal pane oggi... Tu sì che sei Pane dello spirito!...».
«Sia allora come tu vuoi. Vieni che lo diremo ai pellegrini».
«No. Tu lo hai detto».
«E sei scriba?».
«Sì. Lo sono».
«Il Signore ti porti dove il tuo cuore merita».
«Comprendo ciò che non dici. Vuoi dire: alla Verità. Perché in noi è molto errore e... e molto malanimo».
«Chi sei?».
«Un figlio di Dio. Prega il Padre per me. Addio».
«La pace sia con te».
5Gesù ritorna lentamente verso i suoi mentre l'uomo se ne va coi suoi servi.
«Chi era? Che voleva? Ti ha detto qualcosa di spiacevole? Ha malati?». Le domande assalgono Gesù.
«Chi sia non so. Ossia so che è un animo buono e questo mi...».
«E’ Giovanni lo scriba» dice uno della folla.
«Ebbene, Io lo so ora perché tu lo dici. Egli voleva semplicemente essere il servo di Dio presso i suoi figli. Pregate per lui, perché domani noi tutti mangeremo per sua bontà».
«E’ un giusto veramente» dice uno.
«Sì. Non so neppure come possa essere amico di altri» commenta un altro.
«Fasciato di scrupoli e di regole come un neonato, ma non è cattivo» termina un terzo.
«Sono i suoi campi questi?» chiedono in molti non della zona.
«Sì. Credo che il lebbroso fosse uno dei suoi servi o contadini. Ma lo sopportava nelle vicinanze, e credo lo sfamasse anche».
La cronaca continua e Gesù se ne astrae chiamando vicino i suoi dodici, ai quali chiede:
«Ed ora che vi devo dire per la vostra incredulità? Non ha messo il Padre un pane per noi tutti nelle mani di uno che, per casta, mi è nemico? Oh! uomini di poca fede!... Ma andate fra i soffici fieni e dormite. Io vado a pregare il Padre perché vi apra i cuori e a ringraziarlo per la sua bontà. La pace a voi».
E se ne va alle prime pendici del monte. Là si siede e si raccoglie nella sua orazione. Alzando gli occhi vede il gregge delle stelle che gremiscono il cielo, abbassandoli vede il gregge dei dormienti stesi sui prati. Nient'altro. Ma è tale la gioia che ha nel cuore, che pare trasfigurarsi in luce…
Non mi stancherò mai di ripeterlo. C’è gente che non crede ai miracoli, che non crede che Gesù sia risorto, che non crede alla sua Ascensione al Cielo, che non crede che Dio possa aver creato l’universo e l’uomo dal nulla ma che crede invece che l’Universo sia nato da sé e dal nulla, e che la vita e l’uomo e tutto il mondo animale e vegetale siano pure nati da sé e dal nulla, anzi da una cellula primordiale che si sarebbe poi da sé evoluta e moltiplicata per poi evolvere di cellula in cellula fino ad assumere l’aspetto del mondo animale e vegetale che ci circonda.
I miracoli di Gesù narrati nei Vangeli vengono dai non credenti considerati racconti mitologici inventati dai primi discepoli per rivestirlo di un’aurea divina mentre Gesù - secondo costoro - sarebbe stato semplicemente un ‘uomo’.
Bene, lasciamo che credano a quanto preferiscono credere, pur se anche nei nostri tempi sono avvenuti e continuano ad avvenire miracoli di ricostituzione di tessuti umani e di organi in maniera ‘miracolosa’, come a Lourdes e in molti altri luoghi.
Qui assistiamo appunto al miracolo di una ricostituzione di tessuti ed epidermide, non molto diversa da quella che deve aver avuto il Corpo piagato ed atrocemente ferito di Gesù al momento della sua Resurrezione.
Non è stato parimenti diverso il miracolo della resurrezione di Lazzaro, da quattro giorni nella tomba con un corpo putrefatto, i cui tessuti ed organi non solo erano stati rigenerati, come successo al lebbroso di cui sopra, ma da morto era stato addirittura richiamato alla vita.
Il ‘giorno’ ebraico iniziava al tramonto del sole e finiva al tramonto successivo, contando 12 ore notturne (dal tramontare al sorgere del sole) e 12 ore diurne (dal sorgere al tramontare del sole.
Gesù aveva finito il suo Discorso della montagna nel pomeriggio di quel che noi cristiani chiamiamo ‘Venerdì’ per poter giungere presumibilmente a Cafarnao prima del tramonto, cioè prima dell’inizio del Sabato ebraico che cominciava appunto al tramonto del Venerdì.
Il sabato era giorno festivo e la legge ebraica imponeva che - per tutta la durata del giorno - non ci si spostasse dal luogo in cui ci si trovava all’ora di inizio del Sabato, salvo una possibilità molto limitata di movimento in un raggio circoscritto.
Il precetto, se valeva per Gesù sempre rispettoso della Legge, valeva naturalmente anche per la folla che lo seguiva. Gesù e folla avevano dunque entrambi l’esigenza di arrivare per tempo nei loro luoghi di destinazione, o quanto meno in paesi vicini dove potersi accampare e rifocillare.
L’apparizione del lebbroso manda però a monte il proposito di tutti. Si è fatto così troppo tardi e – continuando a procedere - sarebbero stati tutti sorpresi dall’ormai incombente inizio dell’ora del tramonto mentre erano ancora in cammino, in piena campagna e lontani dai centri abitati.
La folla sarebbe stata costretta a fermarsi, accamparsi, a dormire all’aperto, sostare durante tutto il sabato senza acqua e pane o altro vitto: gli avanzi di cibo sarebbero stati infatti esauriti nel luogo dove si erano fermati per pernottare, ai piedi della montagna.
Gesù, nel corso del suo precedente discorso, dopo la ‘fuga’ di Maria di Magdala, aveva manifestato l’intenzione di continuare il discorso nel pomeriggio ricordando però alla folla che era prossimo l’inizio del giorno del Signore e che chi temeva di non poter giungere in tempo alle case prima dell’inizio del Sabato incombente e procurarsi del cibo, non riuscendo a credere che Dio avrebbe comunque dato il pane ai suoi figli, poteva anche partire subito prima che il tramonto lo cogliesse in cammino.
È in questo contesto che si inserisce l’episodio dello Scriba Giovanni, che mescolato fra la folla, sentendo dire così, se ne era andato anzitempo come vari altri con l’intenzione però di procurare cibo per la folla che ne era rimasta priva.
Gesù - pur essendo disceso in tempo dal Monte per consentire a chi lo avesse desiderato di raggiungere i centri abitati - sapeva perfettamente che la Provvidenza di Dio in qualche modo avrebbe trovato una soluzione per il sostentamento di tutti.
La ‘Provvidenza’ non manca all’appuntamento e – complice l’episodio umanamente imprevedibile del lebbroso che apparendo davanti a Gesù ferma la marcia del Gruppo apostolico e della folla – essa dispone toccando il cuore dello Scriba Giovanni il quale mentre la folla si è ormai accampata nella sera che scende ritorna da Gesù e gli manifesta il suo desiderio di provvedere l’indomani mattina al vettovagliamento della gente.
Vorrei però attirare l’attenzione su un particolare che – a ben riflettere – è davvero curioso.
La folla si domanda chi sia il misterioso personaggio, gli apostoli interrogano Gesù il quale risponde testualmente: ‘Chi sia non so. Ossia so che è un animo buono e questo mi…’.
«È Giovanni lo scriba», dice uno della folla.
E Gesù di rimando:
«Ebbene, Io lo so ora perché tu lo dici…».
Ora, Gesù – che, come ‘Uomo’, nulla sapeva della apparizione del lebbroso che avrebbe di lì a poco incontrato - mostra di non conoscere nemmeno chi sia il nome di questo benefattore, mentre in molte altre occasioni Egli aveva mostrato di conoscere con precisione il futuro e le cose nascoste. La spiegazione è però molto semplice. In Gesù convivevano due nature, quella divina e quella umana.
Nella normalità delle cose quotidiane era la sua natura umana a rivelarsi, con i suoi limiti circa la conoscenza di tante cose, ma – quando le circostanze lo richiedevano per la Missione – il Verbo che era in Lui si manifestava con la sua Onniscienza come pure con la potenza dei miracoli e di certi discorsi spiritualmente elevatissimi.
In ogni caso Gesù – pur essendo Uomo-Dio - non perdeva occasione, specie nel silenzio della notte, per raccogliersi in preghiera ed unirsi al Padre perché è dall’unione con il Padre che il Gesù-Uomo traeva le forze per la continuazione della Missione nonostante tutte le difficoltà che gli venivano frapposte.
Quanto allo scriba Giovanni, lo ritroveremo ancora21, nel seguito dell’Opera valtortiana fra gli estimatori di Gesù anche se coinvolto in un tentativo, vanificato da Gesù, di proclamarlo re e restauratore della patria22 in occasione di una riunione segreta di notabili della Palestina nella casa di campagna di Cusa, Intendente di Erode e marito di Giovanna, la discepola nominata nei Vangeli canonici, salvata miracolosamente da Gesù da morte sicura.
La Provvidenza divina, cioè la Volontà di Dio, aveva comunque creato le condizioni – con l’improvvisa irruzione del lebbroso ed il tempo perduto che aveva obbligato ad una sosta in più di un giorno nella giornata di Sabato – per un ulteriore imprevisto discorso di Gesù, il settimo, forse per noi il più importante: quello sul fare – amandola - la volontà di Dio.
Ma ciò sarà argomento della nostra prossima riflessione che sarà dedicata a:
10. IL SETTIMO DISCORSO DELLA MONTAGNA NELLA SOSTA DEL SABATO:
AMARE LA VOLONTA’ DI DIO (01 di 3)

1  Gn 1, 1-31.
2  M.V.: ‘I Quaderni del 1945/1950’ – Dettato del 20 gennaio 1946 – Centro Editoriale Valtortiano.
3  N.d.A.:Vedi i primi Padri della Chiesa, poi Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino.
4  M.V.: ‘Lezioni sull’Epistola di Paolo ai Romani’ - Dettato 19.1.1950 – Ai Romani C. 8, v. 6-7-8 – C.E.V.
5  N.D.A.: Spiriti puri: Dio è ‘Purissimo Spirito’, gli Angeli creati da Dio sono ‘puri spiriti’, l’uomo è ‘spirito in carne umana’.
6  N.d.A.: Vedi meglio Is 14, 9-20: Trattasi di un brano profetico di controversa interpretazione usualmente riferita alla morte del Re di Babilonia dell’epoca storica del Profeta ma che qui lo Spirito Santo valtortiano applica invece a Lucifero e alla sua ribellione in Cielo che ne provocò la caduta nell’Abisso, cioè nell’Inferno.
7  Gn 2.
8  Matteo 11, 12; Luca 16, 16.
9  1, Pietro 5,8.
10  M.V.: ‘Quadernetti’ – 13.3.48 – 48.8 – Centro Editoriale Valtortiano.
11  M.V.: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ – 26.8.1944 - Vol. I, Cap. 5
12  Mt 18, 11-14: ‘11Il Figlio dell’Uomo è venuto, infatti, a salvare quello che era perduto. 12 Che vi pare? Se un uomo ha cento pecore ed una di esse si smarrisce, non lascia egli forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella smarrita? 13 E se riesce a ritrovarla, io vi dico in verità, prova più gioia di questa che delle novantanove che non si sono smarrite.14 Così il Padre vostro, che è nei Cieli, non vuole che si perda neppure uno solo di questi piccoli’
13  M.V.: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ – 12.8.1944 - Vol. IV, Cap. 233 – Centro Editoriale Valtortiano
14  Gv 20, 4-18.
15  M.V.: ‘I Quaderni del 1944’ – 30.3.1944 – Centro Editoriale Valtortiano
16  Nota Editore: La stessa posa… e lo adorò, rispettivamente nelle visioni del 18, 19 e 21 febbraio 1944. Il monologo che segue si spiega considerando che gli scritti valtortiani - (come abbiamo già annotato il 12 gennaio (N.d.A.: il riferimento dell’Editore è al Dettato 12.1.44 dei Quaderni del 1944) - identificano Maria di Magdala, sorella di Marta e di Lazzaro, con la peccatrice innominata di Luca 7, 36-50.
17  Nota Editore: Nella visione del 23 marzo 1944, Quaderni 1944 – Centro Ed. Valtortiano
18  Mt, 26,6-13 / Marco 14, 3-9 / Giovanna 12, 1-11
19  Lc 10, 38-42
20  M.V.: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ – Vol. III, Cap. 175 – Centro Editoriale Valtortiano
21  M.V.: ‘L’Evangelo come mi è stato rivelato’ – Vol. VII, Cap. 464.2 – Centro Ed. Valtortiano.
22  Gv 6, 1-15.
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